BANGLADESH – 2003 

 

 

 

Il VISTO


Erano un po’ di anni che volevamo andare in Bangladesh, ma le complicazioni per avere il visto turistico ci avevano sempre fatto scegliere altre destinazioni.


L’ambasciata in Italia, contattata al telefono, pretendeva che ci presentassimo personalmente a Roma per fare la domanda.


Poi abbiamo provato in Malesia,  andando direttamente all’ambasciata di Kuala Lumpur, ma anche lì ci avevano fatto un sacco di difficoltà facendoci capire che non avevano nessuna intenzione di rilasciarcelo, e poi, cosa andavamo a fare in Bangladesh ?


Nel 2003 abbiamo provato a Bangkok, che è sempre stato il paradiso dei visti difficili, e lì, in un paio di giorni, il nostro passaporto è stato fornito dei tanto desiderati timbri.


Dopo altri due giorni, eccoci in volo per Dhaka.




DHAKA


La prima immagine di Dhaka sono i moltissimi risciò a pedali che circolano per le strade:

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/109%20Rajshahi.html

Non si sa esattamente quanti siano in tutta la città, qualcuno dice più di 600.000 (su una popolazione di 7.000.000 anime).

Certo è che per molte persone che si spostano dalla campagna in città in cerca di vita un po’ migliore, riuscire a prendere in affitto o a comprare un risciò può presentare un importantissimo aiuto per la loro sopravvivenza.

Ma non tutti, ovviamente, sono così fortunati.

 


Troviamo subito alloggio nel quartiere di Gulshan, una zona residenziale relativamente “di lusso”, alla Green Goose Guest House, posto pulito e frequentato da occidentali che si trovano a Dhaka per lavoro, soprattutto giapponesi che lavorano al vicino Japan-Bangladesh Friendship Hospital.

 


Per girare in città si va con il risciò a pedali o, su distanze più consistenti (la città è grande) con i più lussuosi e tecnologici risciò a motore.

I taxi a quattro ruote sono più rari e si trovano solo in alcune zone della città.



Andiamo subito a soddisfare il nostro desiderio di immergerci nell’umanità bengalese dirigendoci a Sadarghat, il terminal dei trasporti su fiume della città.


Il trasporto via acqua, ovviamente, è una forma di trasporto molto diffusa e importante per l’economia locale, e i moli sono affollatissimi.

Sembra regnare ovunque la confusione, gente che parte o arriva coi barconi si mescola con chi cerca di vendere qualcosa e con gente che trascina la propria vita sulla riva fangosa o sui relitti semiaffondati che giacciono attorno.


Vecchi barconi trasportano merci e persone stipandoli in maniera inverosimile.

Alcune donne lavano i panni in questa acqua maleodorante color fango.

Gruppi di bambini riescono a giocare nell'acqua mentre noi abbiamo la sensazione di aver ricevuto un pugno nello stomaco.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/004Sadarghat.html

 

Ci sentiamo completamente fuori posto, ci sembra quasi di esserci intromessi nel privato di altre persone, vorremmo chiedere scusa per essere nati in un altro paese, per stare bene, per essere fortunati e, soprattutto, per avere voluto infilare il naso nella loro vita.


E’ difficilissimo, non sono in grado di descrivere la sensazione che abbiamo provato, ma è stata una delle sensazioni più forti che abbiamo mai avuto in uno dei nostri viaggi.
Una tale concentrazione di miseria, di confusione, di disordine, di sporcizia raramente l’avevamo mai vista nel passato.


Per l’ennesima volta faccio la considerazione di quanto siamo stati fortunati noi, che la lotteria della vita ci ha fatti nascere nel nostro paese, contro la grande maggioranza di esseri umani per i quali sono invece state scelte, per la nascita e per la vita, condizioni ben diverse.

E per l’ennesima volta penso che per una grande fetta di umanità la speranza più ottimistica che può avere è quella di riuscire ad arrivare al giorno dopo.


Veniamo attorniati da un gruppo di facchini, curiosissimi di noi, e la foto di gruppo è inevitabile. L’entusiasmo e la confusione vanno alle stelle quando faccio vedere, sul dorso della mia macchina fotografica, la fotografia appena scattata.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/019%20Facchini.html 

 

 

 

Fuori della zona dei moli ci dirigiamo verso la zona storica della vecchia Dhaka, poco lontana dal molo.

Visitiamo l’ Ashal Manzil, bel palazzo costruito nel 1872 per uno dei più ricchi “zamindar” locali.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/020%20AshanManzil.html

 

Gli zamindar erano i proprietari terrieri, quasi sempre indù che, all’epoca degli inglesi, avevano stretti rapporti di collaborazione con gli occidentali.

 

Per avere un’idea di quello che poteva essere la “collaborazione” tra proprietari terrieri e inglesi, è interessante leggere le parole pronunciate dal Governatore Generale dell’India Lord Bentinck a proposito decreto di privatizzazione delle terre indiane, che aveva portato grandi ricchezze agli alleati locali di Londra:

"Pur essendo necessarie appropriate misure di sicurezza contro sommosse o rivoluzioni popolari, il "Permanent Settlement", anche se è stato un fallimento sotto molti altri importanti aspetti, ha avuto almeno il vantaggio di creare un gran numero di proprietari terrieri benestanti, profondamente interessati alla continuazione del Dominio Britannico, i quali sono in grado di controllare la massa del popolo".


La classe più povera invece, era nella zona costituita dai musulmani.

L’Islam ha fatto particolare presa da queste parti proprio perché, a differenza dell’induismo che ha sempre teso a conservare le differenze di casta e di classe esistenti, predicava l’uguaglianza tra tutti gli uomini.

Facile immaginare che gli ultimi scalini della complicata struttura indù fossero ben felici di passare all’altra religione egualitaria.




La costruzione del forte di Lalbagh è stata iniziata, anche se non è mai stata conclusa, nel 1677 da uno dei figli di  Aurangzeb, l’ultimo dei grandi imperatori Mogul che hanno regnato nel subcontinente, ma questo forte ha poco da spartire con i grandiosi palazzi mogul che si trovano ancora in India.


Lo Shankharia Bazar, chiamato anche “strada indù” ospita parecchie botteghe di artigiani, in particolare sono curiose quelle dove si costruiscono e si decorano i coloratissimi risciò a pedali.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/110.html

 

 

La Chiesa Armena della Santa Resurrezione costituisce un’oasi di pace e tranquillità in questo animatissimo quartiere.


E’ stata costruita nella seconda metà del 1800 dalla comunità armena di Dhaka, costituita da non più di una quarantina di famiglie ma molto ricca grazie agli stretti legami di affari che aveva con la Compagnia delle Indie.

 


Merita una menzione speciale, nella parte nuova di Dhaka, il palazzo del Parlamento.
Un palazzo moderno, progettato nel 1963 dall’architetto americano Louis Kahn.

E’ un’architettura sorprendente e inattesa, ma soprattutto molto bella:

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/025%20Parlamento.html


Notiamo che in Bangladesh l’attenzione per il gusto architettonico moderno è particolarmente raffinata, ci sembra decisamente più raffinata di quanto lo sia nella vicina, e più “ricca” India.



La gente è sempre molto cordiale e curiosa. Vogliono sapere perché siamo lì, cosa facciamo, da dove arriviamo, quanti figli abbiamo, ecc.

Quando gli spieghiamo che non abbiamo figli sono sempre molto stupiti e ci guardano con un po’ di commiserazione, da questo aspetto ci vedono più sfortunati di loro.

Molti ci chiedono speranzosi di aiutarli a trovare un posto di lavoro in Italia, e con imbarazzo ci arrampichiamo sugli specchi per dire che da noi non è poi tutto così bello, che si guadagna abbastanza ma la vita è carissima, che c’è molta delinquenza, ecc.



Affittata, non senza fatica, un’auto con autista ci dirigiamo verso la zona sud orientale del paese.

La prima tappa è Comilla, dove visitiamo le rovine di Mainimati.

Tra il sesto e il tredicesimo secolo questa zona è stata un importante centro buddista, e in zona si calcola che ci siano una cinquantina di siti buddisti.

Pare che sia passato da queste parti anche il famoso monaco cinese Xuan Zhang nel suo viaggio da Xian all’India lungo la via della seta nel 600, e che abbia fondato una settantina (?!) di monasteri in questa zona.


Tutte le rovine che vediamo sono costruite in mattoni, non si vede nulla costruito in pietra.
Nel seguito del viaggio ci renderemo conto che praticamente in tutto il Bangladesh, costituito essenzialmente da terreno fangoso trascinato dal corso dei due grandi fiumi Gange e Brahmaputra, non esistono pietre. Questo spiega la grande scarsità di statue scolpite e il fatto che tutte le costruzioni che vediamo siano invariabilmente in mattoni.
In compenso la grande quantità d’acqua disponibile fa di questo paese un enorme e lussureggiante giardino.


La zona archeologica è quasi tutta militare, e questo rende un po’ più complicata la visita del sito.

Nel museo sono esposte delle belle statue in diversi stili e molte formelle di terracotta decorate con realistiche e vive raffigurazioni di persone e di animali.

 

 

 

 

CHITTAGONG


Il viaggio poi prosegue verso Chittagong, dove ci fermiamo all’albergo Meridian (Meridian, eh, non Meridien …).

Il portiere in divisa militare, con i suoi bei baffoni grigi, ci accoglie con tutta una cerimonia costituita da presentat’arm, colpi di tacco e giravolte degne di Buckingam Palace.
Tutte le volte che usciremo e rientreremo dall’albergo il simpatico portiere ripeterà questa cerimonia, neanche fossimo il principe Filippo e la regina Elisabetta.


Di notte sentiamo dalla strada sottostante un grande chiasso, e altoparlanti montati su macchine che urlano qualcosa, ovviamente per noi incomprensibile.
Al mattino vediamo dalla finestra che la strada è completamente deserta e tutte le botteghe sono chiuse.

In albergo ci spiegano che nel corso della notte è stato deciso un “hartal”, ossia uno sciopero di protesta.

Spesso vengono effettuati questi scioperi improvvisi, totali e rigidissimi, e pare che possa essere piuttosto pericoloso cercare di muoversi durante queste agitazioni.
Il personale dell’albergo ci raccomanda di non mettere il naso fuori dalla porta del palazzo, e noi non ce lo facciamo ripetere due volte.


Infatti ci viene incontro subito dopo il nostro autista che ci conferma la necessità di una segregazione totale in albergo fino a nuovo avviso.

Anche lui dice che non muoverà un passo fuori dall’albergo ma in serata, quando lo sciopero è ormai terminato, si presenterà da noi con il vetro dell’auto rotto, probabilmente da una sassata, e con il serbatoio della benzina quasi vuoto. Quando gli chiediamo particolari sul vetro rotto lui è molto evasivo. Questo fatto avrà un seguito al nostro ritorno a Dhaka.


Finalmente liberi, andiamo a visitare la tomba del sultano Bostami, dove si tiene periodicamente un grande festival.

Sugli appunti di viaggio di mia moglie è così descritto: “orrendo laghetto con orrende tartarughe giganti”.

 


Al mattino successivo una rapida visita al museo etnologico, poi ci mettiamo in cerca della zona dei cantieri di demolizione navi.

In questo tratto di costa vengono portate per la demolizione molte carcasse di navi, anche superpetroliere molto grandi. Vengono fatte arenare sulla spiaggia e poi vengono prese d’assalto da  una marea di persone che,  ovviamente con mezzi molto limitati tipo martelli, tenaglie, flessibili e tranciatrici a mano, recupera tutto quello che c’è da recuperare e poi provvede al taglio delle parti in ferro per riutilizzarle come rottami.
Inutile dire che non c’è la più pallida idea di cosa possano essere le più elementari precauzioni di sicurezza e che i “sergenti” che dirigono questi lavori non gradiscano più di tanto la presenza di occhi estranei sul loro modo di lavorare e di far lavorare.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/036%20Chittagong%20Cantieri%20Navali.html

 

Le strade che portano a questa zona sono piene di banchetti e botteghe dove si vendono i materiali recuperati. C’è quello che vende salvagenti, quello che vende lavandini, tute da palombaro, scialuppe di salvataggio, ecc.


Alla sera, al ristorante in albergo, il capo sala ci manda continuamente assaggi gratuiti di piatti che, secondo lui, vale la pena farci conoscere. Veramente gentile e ospitale, come tutto il personale dell’albergo e come tutti i bengalesi che abbiamo incontrato.

 

 

 

COX’S BAZAR


Ed eccoci in partenza per Cox’s Bazar, la spiaggia più famosa del Bangladesh. Beh, non è proprio Saint Tropez, ma c’è la sabbia e c’è il mare.


Nei fine settimana il posto si riempie di turisti (ovviamente solo turisti locali), ma la spiaggia, enorme e lunghissima, resta quasi completamente deserta durante il giorno, affollandosi un po’ al momento del tramonto.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/046%20Cox%20Bazar.html

 

Passa ogni tanto qualche pescatore e passa ogni tanto qualche turista locale, con l’immancabile borraccia e, a volte, con una improbabile borsa 24ore in mano che, da queste parti, deve essere un importante status symbol.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/048.html

 

Il problema di questa spiaggia è che, immancabilmente, tutti i turisti locali chiedono se possono farsi una fotografia insieme a noi, soprattutto con mia moglie che è bionda ed è vista come un animale strano e curioso.

Il loro desiderio deve essere quello di poter mostrare ai parenti la fotografia con gli amici occidentali.

Ci sentiamo un po’ come dei panda allo zoo e ce ne andiamo dalla spiaggia, per fortuna ci sono altre cose da vedere.


Questa zona è molto vicina alla Birmania, e ci sono alcuni templi e monasteri buddisti, in legno, in stile birmano veramente belli, quelli di Ramu, Lamapara e quello di Aggameda Khyang, situato proprio a Cox’s Bazar .

Questo è Lamapara :

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/051%20Lamapara.html

 

Anche questi templi, come qualunque altra attrazione turistica del Bangladesh, sono difficili da raggiungere perché quasi nessuno sa dove siano o come arrivarci e gli autisti dei taxi non sono abituati a portare turisti.

 

Restando una ventina di giorni in Bangladesh, nel mese di febbraio 2003, non abbiamo incontrato nessun altro turista occidentale, gli unici occidentali incrociati erano persone che si trovavano in quel paese per lavoro o nell’ambito di programmi di cooperazione e sviluppo.

E quando parlavamo con gente del posto, stentavano a credere che fossimo andati in Bangladesh solo per “turismo” e per vedere il loro paese.

 


Nella zona ci sono diversi campi profughi dove viene ospitata parte  dei birmani fuggiti dalla loro terra per evitare i soprusi del loro regime (soprattutto se di religione islamica) o perché in cerca di migliori condizioni di sicurezza e attratti dalle migliori paghe che si possono avere in  Bangladesh

Sì, c’è anche chi, nella speranza di passare una vita un po’ meno disgraziata, vuole emigrare in Bangladesh !


Siamo in periodo di elezioni e qui, come in molti altri paesi dove non tutti sanno leggere e scrivere, i simboli dei partiti sono degli oggetti facili da identificare: una bicicletta, una ruota, una palma, ecc.

E questa è una coda di votanti, che vengono rigidamente divisi tra uomini e donne :

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/093%20Elezioni.html

 

Rientriamo poi su Dhaka, per organizzarci il proseguimento del viaggio.
Durante il ritorno, anche per la velocità folle a cui viene spinta la macchina, abbiamo un incidente con un risciò a motore.

Per fortuna nessuno si fa niente e si fracassa solo un parafango dell’auto.


Alla sera si presentano in albergo due tizi, che scopro essere i proprietari dell’auto che ho affittato, e che mi chiedono dei soldi per la rottura del parabrezza (avvenuta in nostra assenza durante lo sciopero di Chittagong) e del parafango.

Ovviamente io mi rifiuto e loro insistono, e la conversazione diventa sempre meno gradevole. Poi riesco a capire che queste persone giustificano la richiesta sostenendo che il danno era stato provocato mentre l’autista, per salvarci dalla folla mal disposta verso di noi, aveva accelerato l’auto in mezzo alla gente e che qualcuno aveva allora buttato dei sassi contro la macchina.

Al che spiego per bene quello che era accaduto realmente e questi si guardano, fanno cenno di aver capito tutto  e mi chiedono scusa, guardano con occhi feroci l’autista che era venuto anche lui ma che se ne stava in disparte in un angolino, e se ne vanno.

Il giorno dopo, un altro autista si è presentato sulla loro macchina.

Ci siamo rimasti un po’ male.


Ci dirigiamo verso Tangail, in direzione nord-ovest.


Anche questo nuovo autista guida come un demente.

Direi che non abbiamo mai visto un modo di guidare così sconsiderato e stupido come in Bangladesh.

Le strade sono quello che sono, piene di pedoni, biciclette, carretti e autobus, le macchine difficilmente sono in condizioni accettabili, ma gli autisti hanno sempre e comunque la necessità di mantenere la velocità più alta possibile tenendo l’acceleratore costantemente schiacciato a tavoletta.

Gli autisti indiani, rispetto ai bengalesi, sono dei tranquilli e pacifici dilettanti .

Questo modo di guidare ci provocava uno spiacevole senso di disagio non solo mentre facevamo i tragitti in macchina, ma anche quando pensavamo a quello che ci aspettava il giorno successivo.


Ma torniamo a Tangail, che ospita uno dei monumenti più belli del paese, la moschea Atia, raffigurata anche sulle banconote da 10 taka.

E’ stata costruita nel 1609, ovviamente in mattoni, vista la carenza di pietre, e le decorazioni sono tutte ricavate su pannelli in terracotta.

Mescola elementi mogul con elementi precedenti, e il risultato è una cosa di una bellezza e, soprattutto, di un equilibrio straordinario:

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/098%20Tangail.html

 

All’interno un mullah sta tenendo una lezione ad un gruppo di bambini del luogo, molto attenti e disciplinati, beh, disciplinati prima di accorgersi della nostra presenza.


Continuiamo il nosro viaggio e, ovunque ci fermiamo, dopo un attimo dal nulla si forma un capannello di curiosi:

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/163%20Curiosi.html

 

 

RAJSHAHI

Attraversando il ramo principale del Brahmaputra andiamo a Rajshahi, dove il Gange divide il Bangladesh dall’India.

Il Brahamputra qui è chiamato Jamuna (nella parte ancora a monte, in Tibet, il nome è Yarlung Tsangpo)  che vuol dire gemello, evidentemente del Gange, mentre quest’ultimo è chiamato Padma.

Le acque, senza saperlo, cambiano nome ogni volta che attraversano un confine.


Andiamo all’hotel Parjatan, che dalla nostra LP viene considerato il Top End della città. Chissà gli altri …

C’è grande agitazione perché è atteso l’arrivo dell’ambasciatore russo, che viene a passare il fine settimana a Rajshahi.

Viene accolto da un gruppo di bambini con le bandierine, dalla banda locale, e da un breve spettacolo di balletto folcloristico nel cortile dell’albergo.

Insieme a lui e alla sua famiglia, noi siamo gli unici ospiti dell’albergo, e al ristorante lo guardiamo con invidia mentre si beve la vodka che fa parte della sua scorta personale.

Noi ci dobbiamo accontentare della solita acqua minerale.


Alla sera è d’obbligo la passeggiata sulla riva del Gange, per vedere il tramonto e guardare, in lontananza, l’opposta riva indiana.

Venditori di noccioline e di gelati, barcaioli che propongono piccole escursioni in battello e gente che  affitta la sedia ai ricchi signori che vogliono godersi il tramonto seduti in maniera confortevole e più consona al loro stato sociale.


La zona è frequentata da milioni e milioni di zanzare voracissime. Due zampironi e l’autan blu distribuito con generosità non hanno nessun effetto, e  per riuscire a dormire un po’ dobbiamo fasciarci completamente, inclusa testa e volto, nei nostri
inseparabili sarong (che ci fanno anche da lenzuola). Con il caldo che faceva è stata una notte memorabile.

 

 

Molto interessante è il museo di Rajshahi, che è anche il museo più vecchio del Bangladesh.
Tra l’altro ospita alcuni reperti che arrivano da Mohenjodaro, in Pakistan, e alcune belle statue indù eseguite su blocchi di pietra importati dal Bihar indiano.


A Rajshai si possono vedere i resti di un “Indigo Khuti”, uno dei tanti stabilimenti di preparazione dell’indaco che fiorivano in questa regione a metà del 1800.

Gli inglesi avevano praticamente imposto in tutto il Bangladesh la coltivazione quasi monoprodotto della pianta da Indaco (successivamente sarebbe stata la juta), che garantiva enormi utili a loro e ai loro alleati “zamindar” locali, ma non ai contadini.

I contadini bengalesi facevano quindi periodicamente dei tentativi di convertire i campi a coltivazioni che fossero più proficue anche per loro, ma i signorotti locali si opponevano in maniera brutale a chi cercava di disobbedire con imprigionamenti, torture, omicidi e incendi di interi villaggi (questa politica è ancora seguita oggi in alcune zone del Bihar indiano).

E infatti le cantine di questo palazzo erano usate come prigioni.

Si diceva che non esistesse cassa di indaco che arrivasse in Gran Bretagna senza essere macchiata di sangue umano.

A seguito di questa situazione nacque una rivolta generale, nel 1859, chiamata la Rivolta dell’Indaco, che durò due anni e che portò poi negli anni successivi alla scomparsa di queste coltivazioni.



Andiamo poi a Puthia, piccolo paese molto suggestivo, dove si trova un gran numero di importanti strutture induiste.

 

Il bel tempio di Shiva ci attende all’ingresso del paese.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/133%20Puthia.html

 

Poi un grande palazzo di fine 800 che mescola elementi di architettura locale con elementi europei, con un imponente colonnato e che adesso ospita una scuola.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/142%20PuthiaPalazzo.html

 

E altri stupefacenti templi indù, sempre in mattoni con decorazioni in terracotta, tra cui il tempio di Govinda e quello di Jagannath:

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/152%20Jagannath.html

 

Mentre qui si vedono i pannelli in terracotta decorati:


http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/148.html

Andiamo poi a Natore, per vedere il palazzo del Maharaja di Dighapatia, che adesso viene utilizzato come una delle residenze ufficiali del Presidente.

Per visitarlo occorre chiedere il permesso alla polizia locale.

Cerchiamo quindi il Comando di Polizia, il solito grande edificio malandato e triste dove la polvere, che probabilmente risale ai tempi della Regina Vittoria, ricopre vecchi mobili e tonnellate di vecchi documenti.

Veniamo introdotti nella sala di attesa e aspettiamo il nostro turno per essere ricevuti dal Gran Capo.

Accanto a noi una folla di persone attende pazientemente con la speranza di essere ricevuta per poter esporre il proprio problema di pensione, di cure mediche, di furto di bestiame o di liti con i vicini.

L’attesa si preannuncia piuttosto lunga.

Nel frattempo scambio due chiacchiere con una persona “elegante”, che si è addirittura messa una giacca per l’occasione, e dopo un po’, sapendo di fargli cosa gradita, gli porgo il mio biglietto da visita.

Come il nostro autista vede questo, gli si illuminano gli occhi e mi chiede anche lui un biglietto da visita.

Con questo in mano va dal Capo Sala d’Aspetto, gli sussurra qualcosa e gli consegna il mio biglietto.Questo a sua volta bussa alla porta del Gran Capo, entra con il mio biglietto e ne esce dopo pochi secondi con un sorriso smagliante: veniamo immediatamente introdotti a corte, sorpassando tutti quei poveri cristi che avevano certo problemi ben più gravi del mio, che desideravo invece solo visitare un vecchio palazzo.


Il Gran Capo ci riceve nel suo immenso ufficio seduto ad una grande scrivania completamente vuota, e inizia a fare i soliti discorsi di chi si ritiene importante (di dove siete?, bel paese l’Italia, ma dove si trova esattamente?, ho un amico che è stato in Europa, io conosco il mondo e sono abituato a trattare con le persone potenti, ecc.).

Esaurito il repertorio chiama l’attendente e gli dà istruzioni per prepararci il lasciapassare che ci permetterà di entrare nell’agognato Palazzo.

La visita del palazzo non è stata un gran che, ma la trafila per avere il permesso è stata un di quelle indimenticabili esperienze di viaggio che ti fanno capire qualcosa in più del paese che stai visitando.



Andiamo verso sud e dopo un numero imprecisato di traghetti arriviamo a Khulna, che sarà il punto di partenza per il nostro giro nel Sundarbans.

Lì abbandoniamo l’auto che ci ha portato da Dhaka.


L’albergo è buono oltre che, ovviamente, molto economico, e ha un ottimo ristorante.

Sul menu i gamberi alla termidoro sono indicati come ”prawn thermometer”, li ordiniamo ugualmente augurandoci che non li chiamino così perché contengono mercurio: sono eccellenti.


Il mattino dopo cerchiamo un taxi per andare a Bagherat, poco lontano da Khulna, dove vogliamo visitare alcune moschee del 1400.


Con un po’ di fatica saliamo sul traghetto

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/178%20Traghetto.html

 

attraversiamo il fiume e ci mettiamo alla caccia dei luoghi che ci interessano. Nonostante l’autista sia della zona trovare tutto quello che vogliamo vedere sarà un’impresa difficilissima.

 

 

 

La nostra fatica viene però premiata da quello che riusciamo a vedere: la moschea a nove cupole, la tomba di Mazhar Khan Jahan Ali, la moschea di Ronvijoypur e, soprattutto, quella di Shait Gumbad.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/181%20ShaitGumbad.html

 

Quest’ultima è la più grandiosa delle moschee tradizionali del paese, costruita nel 1459, con l’aspetto di una piccola fortezza e adornata da 77 piccole cupole. Il nome della moschea significa “60 cupole”, ma da queste parti, si sa, la gente non è troppo pignola.

 

 

 

SUNDARBANS


Al mattino dopo ci aspetta un’imbarcazione per la gita di qualche giorno nel parco nazionale di Sundarbans, costituito da una enorme foresta di mangrovie e occupato da acqua per un terzo della sua superficie. Ci troviamo nella zona del delta del Gange e del Brahmaputra.

Sul battello siamo in undici: alcuni occidentali che si trovano in Bangladesh nel quadro di un programma di sviluppo finanziato dalla Germania, e un giornalista bengalese del quotidiano locale con sua moglie



Nota positiva : nel Sundarbans l’acqua è salmastra e non esistono zanzare: evviva !


Questo parco è noto, oltre che per le sue bellezze naturali, per la presenza di animali come tigri, cervi, coccodrilli, scimmie, rettili, ecc.

La navigazione è piacevolissima, il confort a bordo assicurato dal gentilissimo personale e dalla nostra guida, una specie di “crocodile dundee”  che ha cercato disperatamente di farci vedere una tigre ma è riuscito solo a farci vedere una, come dire, “deiezione solida” sostenendo che era stata lasciata da una tigre.


Però le tigri ci sono veramente, e fanno anche vittime umane, soprattutto tra i raccoglitori di miele,  si calcola che ogni anno da cinque a dieci di loro vengano uccisi.

Questa zona è una delle fonti maggiori di miele per il paese, e ogni anno tra aprile e maggio una moltitudine di gente gira per queste foreste per raccogliere miele.

Nei momenti in cui cercano di seguire il volo delle api fino al loro alveare sono particolarmente vulnerabili agli attacchi delle tigri, che assalgono sempre alle spalle.

Nella parte indiana del Sundarbans usano delle maschere con la rappresentazione di un volto indossate al contrario, in modo da ingannare la tigre che vuole attaccare alle spalle, ma nella parte del Bangladesh queste maschere non vengono utilizzate.


Anche per quanto riguarda gli altri animali il viaggio è stato un po’ deludente.

Molto belli sono stati i paesaggi, incredibilmente lussureggianti, interessante vedere i pescatori che fanno la pesca notturna utilizzando delle lontre per spingere i pesci contro le reti, i villaggi di pescatori e le miriadi di barche con le reti calate in acqua ad aspettare che la corrente del fiume faccia il suo lavoro.

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/227%20Pescatori.html

 

 

 

 

DHAKA


Dopo quattro giorni torniamo a Khulna e poi a Jessore da dove prendiamo un aereo (un dignitosissimo ATR) per tornare su Dhaka.


Mi accorgo alla sera che mi è sparito un borsellino che conteneva 200 dollari, non so se mi è caduto, o se l’ho “perso” sul battello, in aeroporto o in albergo. Quando dico la cosa in albergo, per chiedere se per caso lo hanno trovato da qualche parte, restano stupefatti per la grande cifra contenuta nel borsellino.

Mi consolo pensando io miei 200 dollari siano finiti in mano a qualcuno per il quale questa somma sara’ stata sicuramente più importante di quanto lo fosse per me.

 

 

A circa un’ora da Dhaka si trova Sonargaon, antica capitale del sultanato fino al 1608, con la sua moschea del 1519 in stile pre-mogul ed un misero museo, situato però in una bella “rajbari” (casa di un proprietario terriero).

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/248%20Sonargaon.html

 

Poco lontano si trova Painam Nagar, una strada lunga mezzo chilometro su cui si affacciano una cinquantina di bellissimi palazzi costruiti verso la fine del 1800 dai ricchi proprietari indù.
Al momento della partizione, nel 1947, gli indù sono emigrati verso la parte indiana, lasciando i palazzi ai loro poveri servitori musulmani, che in parte li abitano ancora adesso ma che non hanno potuto far nulla per mantenerli in condizioni dignitose.

L’aspetto è surreale:

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/260.html

http://www.federicop.eu/fotoBangladesh/slides/261.html



A Dhaka andiamo poi al Museo Nazionale, non entusiasmante.

La cosa più interessante, per noi, è stata una bella  raccolta di statue indù, mentre la cosa più interessante per gli altri visitatori …….. siamo stati noi.

Il museo era discretamente affollato e tutti i visitatori, quando ci vedevano, si avvicinavano seguendoci, ascoltando i nostri commenti e guardandoci fissamente.

Per liberarci ogni tanto da questa attenzione troppo pressante dovevamo battere le mani, fare la faccia un po’ cattiva (veramente ci veniva da ridere) e gridare “go! go!”. 

Per dieci minuti la cosa funzionava, poi ritornavano all’attacco.

L’abitudine di guardare così fissamente le persone l’abbiamo notata solo in Bangladesh.
Succede spesso di trovarsi fermi da qualche parte, a leggere la guida, a riposarsi o ad aspettare qualcosa.

Invariabilmente dopo pochi minuti arriva una persona che ti si piazza davanti, vicinissima, e inizia a guardarti in silenzio e in maniera, almeno per noi, un tantino imbarazzante. I

mmancabilmente alla prima persona ne segue una seconda, poi una terza, e così via.


Alla sera andiamo a cena con i nostri compagni di viaggio del Sundarbans, in un buon ristorante coreano dove loro, in qualità di stranieri momentaneamente residenti in Bangladesh, possono portare delle ottime bottiglie di vino californiano ottenute tramite le loro organizzazioni. E’ il segnale che ci stiamo riavvicinando alle nostre abitudini.


Il giorno dopo, mentre il nostro aereo ci riporta a Bangkok, pensiamo che là sotto tanta gente continua a trascinare la sua vita sui moli di Dhaka, qualcuno sta guadagnandosi il pane cercando di strappare un pezzo di lamiera dal relitto di una petroliera, qualche ricco sta passeggiando con la sua 24ore sulla spiaggia di Cox’s Bazar mentre altre persone sono pazientemente in coda in attesa di essere ricevuti dal Capo della Polizia di Rajshahi.

Speriamo che, almeno oggi, riescano a farsi ricevere.

 

 

 

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